‘Going Public’ di Michael Gecan: una guida per l’organizer del 21° secolo

Going Public: An Organizer's Guide to Citizen ActionGoing Public: An Organizer’s Guide to Citizen Action by Michael Gecan
My rating: 5 of 5 stars

‘Going Public’ di Michael Gecan è uno dei testi fondamentali (insieme a quelli di Alinsky e a ‘Roots for Radicals’ di Ed Chambers) per comprendere la pratica del community organizing nella versione proposta dalla Industrial Areas Foundation (IAF) e dai suoi affiliati. Gecan, statunitense di origine croata, è una figura centrale nel community organizing contemporaneo, avendo guidato per lungo tempo le attività di community organizing nel quartiere di Brooklyn a New York e la stessa Metro-IAF.
Nel libro, in cui si alternano le storie e gli aneddoti e gli spunti teorici relativi all’attività di organizer, sono chiariti bene alcuni punti che nelle opere di Alinsky rimanevano scarsamente definiti.
In primo luogo, in particolare nei primi due capitoli del libro, si definisce la natura relazionale del lavoro degli organizer IAF di oggi, che si discosta parzialmente dal lavoro di Alinsky, focalizzato maggiormente sulle dinamiche di potere e sul self-interest degli attori. Lo strumento dell’incontro relazionale, con la condivisione delle proprie storie, emerge quindi come la principale metodologia per costruire organizzazioni di quartiere durevoli, basati su relazioni umane profonde.
Questo non significa che l’aspetto del potere sia trascurato: al contrario, nelle successive parti del libro (dedicate ad azione, organizzazione e riflessione) l’analisi del potere emerge come un altro elemento fondamentale per un’efficace azione di organizing. Gecan chiarisce come l’obiettivo per un community organizer non sia avere familiarità con le figure di potere, ma bensì mantenere un’efficace relazione pubblica caratterizzata da dialogo ma anche da un certo livello di tensione.
Queste dinamiche sono semplicficate magistralmente dal capitolo 7 del libro, ‘Ambiguity, Reciprocity, Victory’, in cui si descrive il complesso rapporto fra gli organizer IAF e il sindaco di New York Rudolph Giuliani: un rapporto decennale caratterizzato da fasi di collaborazione alternate ad altre di freddezza se non di aperta ostilità.
Un altro aspetto del community organizing che veniva lasciato in ombra da Alinsky e che è illuminato da questo libro è il rapporto fra l’azione locale e quella nazionale. Gecan è consapevole del paradosso rappresentato dalle organizzazioni della IAF, con un forte radicamento territoriale ma spesso con uno scarso impatto sulla politica nazionale statunitense. Questo non lo porta a rinnegare il modello. Al contrario, rivendica i successi ottenuti dal suo movimento (in particolare le prime leggi sul salario minimo; la bonifica di quartieri periferici urbani degratati; e la costruzione di migliaia di case popolari a basso costo) sulla base di sperimentazioni locali costruite lentamente dal basso che poi, via via, si estendono ad altre realtà fino a diventare issues di rilevanza nazionale.
Questo, naturalmente, risolve solo in parte il paradosso, in quanto lo stesso Gecan si rende conto che sarebbe necessario un numero molto più ampio di organizers in molte più città per avere un impatto nazionale significativo. L’idea è tuttavia quella che non sia possibile forzare i tempi, o il passaggio dal livello locale a quello nazionale, senza perdere il patrimonio di relazioni e di competenze costruito lentamente e faticosamente nelle organizzazioni locali di vicinato. Quella che emerge, quindi, pare essere una sorta di costruttiva rassegnazione a rimanere una minoranza pur di non sacrificare la propria autenticità.
Un altro aspetto del community organizing descritto da Gecan che un lettore europeo potrebbe trovare ostico è il fatto che le reti della IAF si realizzano quasi esclusivamente a partire dalle congregazioni religiose e dai loro aderenti. Una scelta, questa, non condivisa da altre organizzazioni americane di organizers, come la oggi defunta ACORN; e che pone anche la questione di quanto il modello IAF sia replicabile fedelmente in contesti europei caratterizzati da una società civile più secolarizzata e da un quasi-monopolio religioso cattolico al posto del pluralismo americano.
Nel complesso, quindi, una lettura stimolante, da cui chiunque voglia approfondire la teoria e la pratica del community organizing ricaverà molte risposte, ma anche altrettante domande; e pone sfide interessanti per chi intenda utilizzare questa pratica al di qua dell’Atlantico.

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Reveille for Radicals di Alinsky finalmente in italiano!

Radicali all'azione! Organizzare i senza-potereRadicali all’azione! Organizzare i senza-potere by Saul Alinsky
My rating: 5 of 5 stars

“Radicali all’azione! Organizzare i senza potere” è la traduzione del libro Reveille for Radicals, del 1946, in cui Saul Alinsky per la prima volta delineava le caratteristiche del metodo del community organizing. Insieme a Rules for Radicals (1971) costituisce l’unica opera (senza considerare gli scritti sparsi e le corrispondenze) di questo autore ed attivista americano. Nel libro vengono analizzati il percorso e le condizioni necessarie per la costruzione di un’organizzazione di quartiere viva e partecipata, che secondo Alinsky costituisce l’unico antidoto possibile all’apatia e al fatalismo in cui è caduta la democrazia americana.
Il libro si divide in due parti, delle quali la più interessante è probabilmente la seconda, in cui si cerca di definire le caratteristiche di un’organizzazione di quartiere (un programma onnicomprensivo, senza focalizzarsi su argomenti limitati; l’individuazione e il potenziamento dei leader locali; la definizione dal basso di problemi e soluzioni, in opposizione ai programmi di ingegneria sociale calati dall’alto; e la funzione educativa dell’organizzazione di quartiere), le sue tattiche e strategie.
Molto interessante anche la corposa introduzione, ad opera di Alessandro Coppola e Mattia Diletti, due studiosi attenti conoscitori di Alinsky e del contesto socio-culturale americano, in cui viene ricostruita in modo apprezzabile la formazione culturale e le posizioni del fondatore del metodo del community organizing.
La prima parte del libro è invece un po’ più datata e focalizzata sul contesto americano: questo vale in particolare per il capitolo “I radicali: dove trovarli oggi?”, che contiene una lunga digressione sul sindacato americano che può essere tranquillamente sorvolata dai non addetti ai lavori.
Non è un’esagerazione dire che la pubblicazione di questo libro in Italia costituisce un evento, atteso da decenni (da quando Olivetti ne considerò la pubblicazione nelle sue Edizioni di Comunità, per poi scartare l’idea). Ovviamente, questo lavoro non basta a dare un’idea al lettore italiano delle complessità del community organizing, che dall’epoca di Alinsly si è evoluto e diversificato. Una lacuna che potrà essere colmata solo con la pubblicazione di lavori più recenti, come quelli di Ed Chambers e Michael Gecan. Tuttavia, esso rappresenta una lettura imprescindibile per capire un fenomeno, come quello del community organizing, che non solo è sempre attuale e vivo negli USA, ma per cui l’interesse, anche in Europa, è cresciuto in modo significativo negli ultimi due decenni, con la realizzazione di progetti in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, a partire da Regno Unito e Germania (ma anche, più di recente, in Italia).

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Upload: un paradiso ultracapitalista

Ho appena visto l’ultima puntata della prima serie di Upload (disponibile su Primevideo). La serie è intelligente, emozionante, divertente. Quindi la consiglio sicuramente. Ma non è per questo che ho deciso di scrivere una recensione. Il punto è che questa fiction solleva una serie di questioni che mi interessa esplorare.

LA TECNOLOGIA. Non credo di fare spoiler se rivelo che la storia ruota intorno a Nathan, un giovane appena deceduto, la cui mente è stata scannerizzata e caricata su Lakeview, un esclusivo resort virtuale, un paradiso digitale per soli ricchi. Questo è un tema che mi appassiona moltissimo, e su cui consiglio di leggere anche il romanzo Fall, or Dodge in Hell di Neal Stephenson. Il fatto che un autore di culto della narrativa speculativa come Stephenson si sia occupato di questo tema non è un caso, perché di emulazione della mente si parla sempre più di frequente: secondo Nick Bostrom anche come un modo per raggiungere la superintelligenza artificiale. Fantascienza? Forse, ma secondo alcuni potrebbe diventare realtà nel giro di pochi decenni. E quindi?

I DILEMMI MORALI. Premetto che nella serie si parla molto poco delle implicazioni morali, metafisiche e religiose dell’upload di una mente. La questione è solo sfiorata quando uno dei personaggi (del mondo reale) si pone l’alternativa tra il vivere per sempre nel paradiso virtuale di Lakeview, oppure (essendo lui un credente) riabbracciare la moglie nel paradiso ultraterreno. Questa è una questione che sicuramente poteva essere sviluppata di più, ma è anche comprensibile che gli autori abbiano voluto evitare implicazioni troppo scomode. Speriamo che nelle prossime serie si possa fare di più, perché le possibili controversie morali e sociali generate da questo tipo di tecnologie, in caso venissero realizzate, sono enormi. Per dirne una: l’upload della mente è solo un replicante digitale, che riproduce le azioni e reazioni dell’originale, oppure un vero e proprio essere cosciente, che ha una vera continuità con l’originale? E soprattutto: quali saranno le reazioni delle religioni organizzate e dei movimenti fondamentalisti? Se c’è una tecnologia che può scatenare reazioni luddiste, di rifiuto della tecnologia, è sicuramente questa.

DISUGUAGLIANZE. La serie ci dice tuttavia molto anche a proposito del nostro mondo, e di questioni molto più materiali. Questo lo scopriamo immediatamente dalle prime puntate. Lakeview è un paradiso ultracapitalista, dove tutto è a pagamento, compresa la vita delle persone: infatti gli upload che non hanno più fondi vengono privati di tutti gli extra; o persino, nei casi estremi, congelati. Al contrario, i ricchi possono permettersi qualsiasi lusso. Tutto questo si riflette, per quanto possiamo vedere, nel mondo reale (anche se riusciamo a vederne solo una piccola parte), con i ricchi e privilegiati da una parte, e dall’altra gli ‘have not’, che nonostante la maggior parte delle attività (dalla guida di automobili alla cassa dei supermercati) siano svolte da intelligenze artificiali, è costretta a fare bullshit jobs per sopravvivere. Credo che non sia per caso che tutti gli ‘angeli’, che svolgono il customer service per i residenti di Lakeview, siano rappresentanti di minoranze etniche, mentre la ricca famiglia della fidanzata di Nathan ha un aspetto molto WASP.

Un aspetto molto interessante del mondo di Upload è il fatto che il sistema capitalista sembra strettamente legato ad una forma pervasiva di economia reputazionale (sotto forma di valutazione da una a cinque stelle), che non si estende solo alla valutazione degli impiegati (per i quali anche la possibilità di effettuare l’upload di un proprio congiunto dipende dalla reputazione guadagnata). Persino i rapporti sessuali vengono valutati in questo modo, in un mondo dove le relazioni sembrano ormai dipendere in larga parte dai social network e dalle apps di incontri. Il mondo di Upload somiglia quindi, se vogliamo fare un paragone, al modello cinese: capitalismo selvaggio, burocrazia basata su un sistema reputazionale, e poca democrazia (ma di questo parlerò dopo).

LA PROPRIETA’ DELLE TECNOLOGIE. Veniamo qui ad un punto specifico: la proprietà delle tecnologie. Le nuove tecnologie porteranno ad un mondo post-scarsità e post lavoro, più equo e sostenibile? Saranno quindi le tecnologie liberatrici di cui parlava Bookchin? Oppure riusciranno solo a trasformare il mondo in una distopia ultracapitalista? Gli autori di Upload sembrano evidentemente propendere per la seconda ipotesi (forse perché risulta più avvincente dal punto di vista narrativo?). Nel corso della serie si scopre infatti che ci sono ricerche per democratizzare la tecnologia dell’upload, sottraendola al controllo delle corporation. Non mi dilungo su questo, perché è uno dei perni della trama (e non posso rivelare troppo!), ma mi limito ad osservare che più la tecnologia si sviluppa, più la questione di chi detiene la proprietà delle tecnologie diventa fondamentale. Nel mondo del tardo ventunesimo secolo, non sarà tanto importante chi detiene i mezzi di produzione, ma chi detiene il controllo delle tecnologie, e se queste tecnologie saranno disponibili open source o su base proprietaria. Questo potrebbe avere un’influsso fondamentale anche sullo sviluppo più generale dei sistemi economici. Su questo gli autori di Upload sembrano avere le idee molto chiare.

LA DEMOCRAZIA? NON PERVENUTA. Ho notato da tempo che le visioni fantascientifiche degli ultimi decenni tendono a non includere la democrazia. In qualche caso troviamo vere e proprie distopie in cui gli individui sono privati dei più elementari diritti da un potere umano o artificiale. In altri, semplicemente si dà per scontata la depoliticizzazione della società, in sistemi dove solo l’economia sembra più contare. Anche in questo caso, le scelte sono spesso un espediente narrativo; ma, credo, ci dicono anche molto sulla percezione che gli autori hanno del nostro mondo. Upload non fa eccezione, dato che, a quanto ricordo, non vi è presente un solo riferimento politico. Un attimo: uno in realtà c’è: la menzione del fatto che il ricchissimo padre WASP della fidanzata di Nathan conosceva Ronald Reagan. E’ un ammiccamento? O un riferimento in codice al fatto che il capitalismo selvaggio e le disuguaglianze del mondo di Upload discendono dalle idee e dalle politiche reaganiane? Il mio intelletto propende per la prima ipotesi, ma al mio cuore piace immaginare uno sceneggiatore (o sceneggiatrice) con un penchant per la denuncia sociale.